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“Cosa pensavi di fare?” di Carlo Mazza Galanti

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Uno degli esercizi più divertenti, ma spesso esasperanti, che si può fare giocando con le scelte grandi o piccole della nostra vita è quello del “what if”, il “cosa sarebbe successo se”, per immaginare quelle che sarebbero potute essere strade diverse per la nostra esistenza. Questo tipo di ragionamento ha assunto anche una forma narrativa ben precisa, quella del del libro-game, che ha un passato di autori e scuole letterarie illustri (l’OuLiPo per esempio con il racconto di Raymond Queneau Un racconto a mondo vostro), ma anche un vero e proprio mercato vivo con testi soprattutto degli anni Ottanta (come testimoniano popolati gruppi di compravendita su Facebook). Si tratta di una forma di narrazione in cui l’autore sottopone al lettore delle scelte su come proseguire la storia, un romanzo a bivi dove il bandolo della narrazione è padroneggiato dal lettore (per quanto in realtà sia l’autore a disegnare le varie strade e quindi a limitare nell’universo del possibile le scelte da prendere). È chiaro come quindi alla base di questa narrazione ci sia un’ontologica incertezza in quanto neanche a chi crea il libro e la storia è concesso di guidarla e più sono le scelte e i bivi tra cui si trova a scegliere il lettore e più sono le possibilità di ramificazione della vicenda.

Il critico e traduttore Carlo Mazza Galanti trova in questa forma particolare la chiave perfetta per illustrare lo stato di incertezza per chi oggi ha tra i trenta e i quarant’anni (chi «ha avuto la sventura di essere giovane negli ultimi vent’anni») e si trova in una condizione di precariato ben difficile da superare. Il libro riesce a muoversi con grande naturalezza tra la tragedia esistenziale e l’ironia del tono, come già le citazioni in esergo a ogni sezione del libro fanno presagire, tra Jack London e Friederich Hegel (rispettivamente «Dovevo impararlo un po’ più tardi purtroppo, che l’ebrezza intellettuale procura anch’essa un amaro futuro» e «L’uomo non è altro che la serie della sua azioni») ed Elsa Fornero («Non bisogna mai essere troppo choosy») per la parte di romanzo dedicata al lavoro, Dennis Robertson, Alfred Jarry e Frabrizio Corona per la parte sull’amore e Philip K. Dick, Mario Soldati e Mark Zuckerberg per quella più generale sulla vita.

Cosa pensavi di fare? Romanzo a bivi per umanisti sul lastrico, edito da Il Saggiatore, si muove appunto attorno a questi tre macroaspetti dell’esistenza. La prima parte è dedicata alle scelte universitarie: «hai diciannove anni e un vago riflesso edipico, una fragile coscienza politica, un insensibile moto generazionale ti spingono a pensare che no, non hai nessuna voglia di entrare nel ciclo produttivo del “capitalismo occidentale”. Il tuo posto sarà quello di uno spettatore, ma non uno spettatore passivo: uno spettatore critico, attivo, molto loquace. Diciamo pure un intellettuale». A questo punto si apre per il lettore la prima scelta del libro, tra l’iscrizione a filosofia a quella a medicina, anche accogliendo le insistenti pressioni famigliari, ed è strano, leggendo queste pagine e ritornando sul proprio percorso, accorgersi di come una scelta così rapida sia decisiva per molto del proseguimento della vita. Da lì si parte o per una carriera accademica vista come un miraggio e conquistabile solo a costo di inchini, sopportazioni e lontananza dall’Italia oppure la storia si chiude subito con l’accettazione di anni di studio di medicina per recuperare dopo la laurea il tempo perduto. Il fatto che la vicenda dell’“intellettuale” sia quella che dura di più e offre più strade rispecchia da un lato l’esperienza dell’autore, ma dall’altro è anche il modo per parlare del «bracciantato culturale», dell’importanza del «retaggio culturale» e della disponibilità economica che seleziona in maniera netta le scelte per il futuro. Perché ciò che il libro di Mazza Galanti fa, ed è forse l’aspetto più importante di questo lavoro, è indagare non solo una delle possibili strade che si aprono o si sono aperte a un’intera generazione, ma è un tentativo di esplorarle tutte giocando con la letteratura, studiando così le forme del lavoro culturale, ma anche dell’instabilità degli affetti e la difficoltà di mantenerli quando tutto intorno sembra crollare un pezzo alla volta e in maniera inesorabile.

Nella parte dedicata alla “vita”, quella che chiude il libro, la storia assume il carattere di un vero e proprio breve romanzo di formazione, che nasce sui banchi di scuola tra disobbedienza e rispetto per le rette pagate dai genitori e che può arrivare, tra le altre cose, al seminario o alla scelta rurale. Ma in questa parte del libro sono custodite le pagine più drammatiche della narrazione di Mazza Galanti, quelle dedicate agli eventi di Genova del 2001, che assumono anche nella finzione narrativa (ma si tratta davvero di questo? Domanda che risuona continuamente durante la lettura) i contorni di uno spartiacque decisivo. In “Genova”, il primo dei tre capitoli dedicati a questi eventi, dopo l’esperienza di una città che «sembra indossare una maschera antigas», arriva ancora il momento di una scelta all’apparenza neutra, «chiedere asilo alla scuola Diaz, centro di coordinamento del Social Forum con funzione di dormitorio. Oppure uscire definitivamente dalla città, ripartire con l’ultimo treno per Milano, lasciarsi alle spalle questi giorni da incubo». Le due scelte, come è facile intuire, si aprono a due modi assolutamente diversi di proseguire la vita: da una parte il quadrato nero che occupa la scelta “Diaz” e che non ha nessuna nuova scelta da fare, con la fine della storia e del libro, dall’altra la “Fine degli ideali” quel lento e inesorabile sentimento di estraneità dalla società e dall’impegno per essa che sancisce comunque una conclusione amara.

Le scelte sono simboliche, così come i vari momenti di questo libro, ma l’impressione finale è che la scelta del romanzo a bivi sia stata lo strumento migliore per raccontare il disorientamento di un’intera generazione, la discrepanza tra il mondo e le aspettative dei genitori e quello dei figli e quel latente sentimento di trovare un altrove, «di uscire dal mondo», che finisce talvolta per essere l’unico temporaneo rifugio sicuro.

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